Per chi non fosse informato su Flat e dintorni potete leggere QUI. Quello che segue è un contributo alla discussione che ci vedrà riunite il 14/15 giugno a Bologna.
Intro
Il tavolo su
“Media, linguaggi ed immaginari.
Strategie e pratiche di autorappresentazione e riappropriazione dei mezzi di
comunicazione e dei linguaggi”
della due giorni che si è svolta a Roma il 23/24 febbraio [leggete le conclusioni] è stato utilissimo
affinché avvenisse uno scambio di esperienze che in qualche modo hanno chiarito
quale fosse la strategia di comunicazione possibile per dare visibilità alla
nostra lotta senza essere subordinate alle regole imposte dai media mainstream.
Anzi dal 24 novembre in poi si è
avviato un percorso che è stato sempre più diretto a realizzare ambiti di
comunicazione “condivisa” (la mailing list e il blog invece che il sito e la
newsletter) per favorire una maggiore
partecipazione e per far coincidere lo strumento di comunicazione (Flat) con
l’intenzione di moltiplicare la nostra presenza in rete in una modalità virale
(con più blog) e di far corrispondere i principi che la rete femminista e
lesbica condivide con il progetto che ci ospita (autistici/inventati:
antisessismo, antirazzismo, antifascismo).
In generale si è preferito dunque
applicare la regola del farci media piuttosto che inseguire i media ufficiali.
Comunicare all’esterno dunque a partire dai nostri mezzi di comunicazione,
tutti quelli di cui disponiamo e che impareremo a crearci. In questo senso e’
stato proposto un workshop pratico in cui si è spiegato per sommi capi come,
dove e perchè fare un blog (potete trovare molti argomenti proposti nell’Abc
per la femminista tecnologica).
Il workshop è servito anche a
descrivere le modalità d’uso di una mailing list. Partendo dal presupposto che
si tratta di una assemblea virtuale permanente ne abbiamo descritto la funzione
e abbiamo specificato alcune regole utili a garantire un corretto svolgimento
delle conversazioni online.
Abbiamo anche ragionato molto sul
fatto che tante non ritenevano utile una comunicazione con le istituzioni. Per
altre, come per i centri antiviolenza,
invece il rapporto e il dialogo con le istituzioni veniva descritto come
ineludibile.
La rete femministe e lesbiche, pratiche e metodi di comunicazione
interna
La rete femministe e lesbiche è una
aggregazione eterogenea composta da gruppi aventi pratiche e modalità
differenti del fare politica. Tali gruppi, nell’attività di rete, si danno
degli obiettivi comuni e si ritrovano ad accogliere e valorizzare singole
esperienze nella dimensione collettiva.
All’interno della rete ci sono
anime differenti. Esse descrivono modi altrettanto differenti di assumere
decisioni e di praticare il lavoro di rete tra le tante realtà.
Un modo è quello delle decisioni a
maggioranza, in assemblee autoconvocate (nelle quali non sempre si può
presenziare per le distanze e/o perché non si possono coprire le spese del
viaggio) in cui evidentemente conta l’essere presenti. Tali decisioni non
tengono conto dei pareri diversi – che pure vengono manifestati – espressi in
modalità virtuale (attraverso mail e interventi su forum e blog) e anzi
vorrebbero che tali pareri fossero rimossi senza lasciarvi spazio in una
dimensione critica. Questo è stato il metodo usato per la costruzione della
manifestazione del 24 novembre. Manifestazione che, ricordiamolo, suscitò un
grande dibattito proprio sulla questione dei metodi e delle pratiche.
Tale metodo è stato, per così dire,
superato con la due giorni del 23/24 febbraio durante i quali è stato utile
fare un lavoro di sintesi delle differenti posizioni all’interno dei tavoli e
poi stilare un documento finale in cui si descrivessero le cose dette e le
proposte fatte senza che esse costituissero un vincolo per le donne, femministe
e lesbiche che non si ritenevano d’accordo. Un esempio per tutti: è stato
incluso nel documento finale l’appello a partecipare alla campagna “obiettiamo
gli obiettori” (ad assemblea avvenuta e dopo vari interventi in mailing list) senza che questo costituisse un obbligo per nessuna. Semplicemente
si inseriva tra le esperienze che era bello mettere in comune anche quella,
così come si sarebbe potuta inserire quella della campagna bolognese “adotta un
consultorio” o delle altre attività politiche di coordinamenti di donne che in
molti territori lavorano già ottimamente in attività di rete sulla difesa della
194.
La rete femminista e lesbica può
dunque diventare un luogo in cui dar forza, partecipare e amplificare ogni
singola esperienza e proposta politica che viene da ciascun gruppo componente
della rete.
Quando si smette di far valere i
pareri e le decisioni a maggioranza e si ragiona nel rispetto di ogni
esperienza presente già si parla di metodo del consenso. Tale metodo consiste
nel fatto che si tende a garantire il massimo dell’inclusione per ogni
decisione possibile. Il metodo del consenso applicato alla manifestazione del
24 novembre avrebbe significato, ad esempio, che quella manifestazione potesse
essere definita luogo di espressione di pratiche separatiste e anche di quelle
miste, in spezzoni diversi.
Condividere gli stessi obiettivi
non vuol dire perciò escluderne altri. Significa invece tendere ad una
dimensione politica che ottiene posizioni condivise dalle quali ciascuna possa
sentirsi rappresentata.
Metodi di comunicazione interna: errori e analisi
Nella comunicazione interna il
metodo del consenso è nettamente in contrasto con alcuni errori che vengono
fatti abitualmente.
La comunicazione che adoperiamo tra
noi molto spesso è ereditata da altre strutture, può essere una sorta di
tentativo di riapplicare in una rete di tanti soggetti un metodo usato in un
unico gruppo. E’ fatta di veti incrociati, di ostruzionismi, di strategie
machiavelliche degne dei correntoni di vecchi e nuovi partiti. E’ una
comunicazione talvolta ambigua che tende all’egemonia.
In tutto ciò c’e’ tutta la fatica
del nostro voler stare insieme rette dalla volontà di molte che fanno di tutto
affinché sia garantita una “reale” condivisione e un grande rispetto per il
lavoro di tutte.
Come avviene in tutte le reti anche
qui vediamo presenti zone identitarie rigide che mal dialogano con le altre e
che usano la delegittimazione come perenne strumento di paralisi dell’attività
della rete delle femministe e lesbiche.
La paralisi avviene nella pratica e
nella comunicazione virtuale. Perciò si sta discutendo, ad esempio, su quale
possa essere il ruolo della mailing list sommosse (strumento di comunicazione
della rete e non cosa a se stante) e su quale policy e netiquette debba essere
applicata affinché non accada quello che è già accaduto in diverse situazioni.
Un esempio potrebbe essere la
discussione nata attorno alla questione delle iniziative di piazza contro
giuliano ferrara. Molte donne non le condividevano, per ragioni politiche che
spesso sono rimaste inespresse perché il dibattito è stato prevaricato da
alcune donne che pur di far prevalere la loro ragione non hanno consentito che
esso si svolgesse in maniera serena.
In questo senso, e a proposito di
comunicazione tra noi, vale la pena fare cenno alla questione dei toni che
spesso trascendono fino a trasformare le opinioni in veri e propri insulti alle
persone.
L’altro esempio, più recente,
riguarda l’elaborazione collettiva di una lettera di risposta alla ministra
carfagna. La proposta di scrivere la lettera è partita da una di noi e
immediatamente è stata supportata da due differenti proposte. Vi sono stati
interventi in lista che hanno preferito una proposta ed è su quella che si è
lavorato collettivamente seguendo il metodo del consenso. Includendo dunque i pareri
di tutte affinché quel documento potesse realmente dirsi un prodotto politico
della rete femminista e lesbica che poi l’avrebbe firmato.
Per disinformazione rispetto al
metodo chi ha fatto la proposta sulla quale non si è ritenuto di intervenire ha
comunque voluto riproporne un’altra versione che è stata inviata alla stampa
senza che le altre l’avessero letta e condivisa.
Infine la versione elaborata
collettivamente è stata comunque pubblicata in tutti i luoghi di comunicazione
dei quali disponiamo e che hanno voluto accoglierla.
Senza sacrificare tempi e modalità
della rete quella lettera diventava un esempio corretto di elaborazione
collettiva a distanza. Così invece resta comunque un ottimo esempio di come si
può lavorare insieme e di come si può usare la mailing list per produrre
qualcosa di più che non siano flame (litigi in rete).
Alla pubblicazione della rete è
seguita la critica – pubblicata su flat e inviata ad altre mailing list ma non
su sommosse – di una non iscritta alla mailing list che elegge quale unico
luogo decisionale l’assemblea reale, che delegittima l’operato collettivo che
ha portato alla costruzione della lettera, che delegittima la stessa esistenza
della lista sommosse e quindi tutto ciò che di politico in essa si produce, e
chiede che questa cosa sia discussa a Bologna.
Ecco dunque un modo per creare
paralisi e per erigere steccati e recinti decisionali a partire dal proprio
personale punto di vista. Non c’e’ tensione ad un compromesso. Non c’e’
rispetto per il lavoro collettivo. C’e’ una delegittimazione totale e dunque
una appropriazione dello spazio pubblico il cui unico luogo viene eletto senza
tener conto di tutte quelle che hanno lavorato sulla lettera.
Garantire inclusione è un obiettivo
possibile a partire dall’utilizzo di strumenti non costosi, difficili, che
possano persino colmare distanze geografiche faticose, a partire dalla volontà
che ciascuna di noi impiega nel fare politica.
Quali i
luoghi legittimi per determinare comunicazione con l’esterno, per avviare la
nostra presa di parola pubblica? Quali gli equivoci di rappresentazione e quali
esempi di errata comunicazione con l’esterno?
La comunicazione con l’esterno
avviene a partire dalle esperienze che noi facciamo nei vari territori e nei
vari luoghi che politicamente frequentiamo (inclusa una mailing list). Il 14
febbraio molte donne scesero in piazza a seguito del blitz delle forze
dell’ordine in un reparto di ostetricia e ginecologia a Napoli. Le donne hanno
preso la parola senza consultarsi o attendere una assemblea collettiva
nazionale che le autorizzasse a fare questo. Erano semplicemente le donne,
femministe e lesbiche a Roma, a Napoli, a Bologna.
La comunicazione con l’esterno
scaturì da quegli atti politici. L’esigenza di prendere la parola veniva da
un’emergenza di fatto condivisa tra tutte. Le modalità di scendere in piazza
furono diverse tra una città e l’altra. Come diverse furono le reazioni alle
iniziative pubbliche.
Vi furono donne che hanno giudicato
improprie alcune modalità di piazza e altre che hanno risposto per ribadire
opinioni differenti. Così si adoperò lo strumento della lettera, che fu più
d’una e a firma di singole in quanto parti attive della rete femminista e
lesbica. La destinataria della lettera era la Camusso della Cgil.
Anche in questo caso insiste
l’errore di ritenere una rete di donne femministe e lesbiche come un partito
con un’unica linea e un’unica modalità di azione pubblica. Prendere le
distanze, delegittimare e disconoscere l’operato collettivo diventa così un
modo per trovare una collocazione pubblica “altrove”, in un altrove che poco
c’entra con la rete femministe e lesbiche e che c’entra molto con le
prospettive di alcuni soggetti precisi.
Prendere le distanze, delegittimare
e disconoscere l’operato collettivo significa voler costringere una intera rete
femminista e lesbica a riposizionarsi di volta in volta più a destra o più a
sinistra o più al centro, come si trattasse di un’unica entità, di una
struttura rigida che rimane tale anche a seguito di strattoni e spinte.
L’otto marzo invece si sono
organizzati momenti di aggregazione pubblica su presupposti che erano stati già
chiariti alla due giorni del 23/24 febbraio. In questo senso è stato
considerato non positivamente il fatto che la cgil (assieme a cisl e uil)
avesse deciso di organizzare una manifestazione nazionale a roma proprio nello
stesso giorno in cui molte donne erano già impegnate a organizzare iniziative
in ogni città italiana.
Si scrisse dunque un documento
collettivo che in maniera chiara dicesse alla cgil, alla cisl e alla uil che
noi non avremmo mai voluto partecipare ad un appuntamento dove peraltro
venivano chiamati a parlare dal palco i segretari maschi dei sindacati.
Quella iniziativa era calata sopra
la testa alle stesse donne della cgil che in varie città erano invece impegnate
a organizzare l’appuntamento dell’otto marzo insieme alle altre donne,
femministe e lesbiche.
Accadde così che a roma la
manifestazione fu un discreto flop. In altre città invece le piazze furono
piene di persone che avevano risposto a quella volontà comune.
Il documento elaborato a roma per
opporre una critica forte alle modalità e al senso della manifestazione indetta
dai sindacati fu scambiato da alcune donne facenti parte della rete femministe
e lesbiche per un comandamento alla voce “non frequentare le donne della cgil”.
Così accadde che lo stesso otto marzo divenne ulteriore pretesto per una
comunicazione interna in cui ciascuna insegnava all’altra microgrammi di verità
assolute.
Nelle città in cui questo era
possibile, per ricchezza di presenze militanti, vi fu un fiorire di iniziative
di segno diverso ognuna delle quali disconosceva il lavoro collettivo. In
qualche caso le esperienze diverse, lontane dal corteo arricchito dalla
presenza di tante espressioni politiche femminili, mostravano l’ampia
disponibilità di linguaggi, pratiche, aree critiche, obiettivi.
Nella comunicazione questo si
traduce in due differenti messaggi:
1) Il gruppo di femministe e lesbiche che realizzano
esperienze differenti, staccate da molte altre donne facenti parte della rete,
senza dialogare con esse ma ponendosi soltanto in opposizione: comunicano che
quello che loro fanno è il meglio in assoluto. Che tanto più una esperienza è
fatta in una sola direzione tanto più ha valore. Che il segno della radicalità si
distingue solo a partire da certe pratiche e non da altre che di conseguenza
saranno giudicate come improprie, reazionarie, “istituzionalizzate”, “non
radicali”. La prima scelta diventa dunque un modo per negare in assoluto la
seconda.
2) Il gruppo di femministe e lesbiche che realizzano
esperienze differenti in un dialogo con le altre, senza negare la loro
iniziativa, senza includere bollini “qualità” alle diverse espressioni del fare
politica e del prendere spazio e parola pubblica, fanno dunque la scelta di
“arricchire”, di “contaminare”, di produrre “attraversamento”, di far parte di
una rete che agisce insieme pur nelle diversità
In questo senso è utile spiegare il
significato del termine “contaminazione”. Per fare politica occorre immaginare
quale sia il nostro obiettivo, quindi quale spazio pubblico occupare e quale
strategia di comunicazione utilizzare. L’atto e l’effetto di tutto questo si
concretizza nella contaminazione di luoghi, gruppi, persone con idee, metodi,
pratiche che potranno essere sempre più condivise.
La contaminazione produce
immediatamente conflitti. Li produce nella società, tra le persone che
incontriamo, tra le donne che frequentiamo e tra quelle con le quali abbiamo
delle cose in comune ma che frequentano ambienti differenti dai nostri. La
contaminazione è il presupposto e l’obiettivo della comunicazione. Generare
conflitti è un risultato possibile: nelle famiglie con mariti violenti così
come in zone istituzionali gestite a larga maggioranza da uomini.
Una rete di femministe e lesbiche
che aggrega diverse entità politiche può diventare in questo senso un
fortissimo strumento di pressione politica che realizza contaminazione, che
agisce nelle zone di conflitto e che diventa un fondamentale appiglio, una zona
di sicurezza, per quelle donne che fondano il proprio agire politico
all’interno di zone più istituzionali su principi che vogliono condividere con
noi. Con noi e non con il segretario di partito. Con noi e non con il
segretario di sindacato.
Comunicare all’esterno che le donne
della cgil, quando scelgono di non rispondere alla chiamata alle armi dei loro
segretari per tener fede ad una scelta collettiva fatta con tutte le altre
femministe e lesbiche, sono comunque sole è una cosa che si pone in contrasto
con ogni obiettivo plausibile del nostro fare politica. Va in contrasto con il
nostro fare rete. Si identifica in una modalità che tende ad escludere
piuttosto che a includere.
Essere parte di una rete significa
invece poter agevolmente agire, ciascuno per proprio conto, senza essere
identificate in un tutt’uno. Questo stesso errore devono aver fatto alcune che
hanno inteso che rete femminista e lesbica significasse ancora una volta
partito.
Il tempo della campagna elettorale
e poi del post-elezioni è stato perciò difficile da gestire. La comunicazione
interna e quella esterna veicolava messaggi colpevolizzanti, ricattatori,
costrittivi e talvolta minacciosi. Le donne, femministe e lesbiche venivano
individuate come elettrici di questa o quell’altra organizzazione partitica.
Una dichiarazione di non voto diventava motivo, appunto, di minaccia: “Se tu
non voti poi sarà grazie a te che formigoni diverrà ministro alla sanità”.
Di fatto il ministero della sanità
è sparito e il settore della salute è stato affidato alla Roccella. Alcune replicavano
che non si sentivano rappresentate dalla proposta di governo del centro
sinistra o che non erano piaciute le scelte fatte nel governo precedente o che
non ritenevano il voto una scelta politica condivisibile.
La rete delle femministe e lesbiche
si è dunque mostrata in tutta la sua varietà: Ci sono donne che votano, quelle
che hanno votato altro, quelle che non hanno votato affatto. Comunicare agli
altri e a se stesse questa essenziale differenza è fondamentale per mettere le
basi per una coesistenza vissuta nel rispetto di tutte le opinioni.
Come creare una comunicazione secondo i principi della condivisione e del
metodo del consenso?
Il termine “condivisione” usato in questa occasione non sta per “usare
insieme”. Significa invece “condividere una esperienza, viverla assieme”. La
organizzazione di una iniziativa “condivisa” sarà dunque vissuta insieme,
organizzata insieme, includendo tante presenze, rappresentando il più possibile
ciò che richiede di essere rappresentato.
Una comunicazione realizzata secondo i principi della condivisione è dunque
una comunicazione elaborata insieme in ogni suo passaggio. Il metodo per
realizzare questo tipo di comunicazione è quello “del consenso”.
Il metodo del consenso funziona così: in una assemblea non si vota a
maggioranza. Non ci sono leader ma eventualmente delle moderatrici che
faciliteranno (con operazioni di sintesi) il dibattito. La facilitazione deve
offrire eguale possibilità di rappresentazione per tutt*. Saranno rappresentate
le opinioni di maggioranza e minoranza in egual modo partendo da due proposte
differenti. Queste proposte e gli interventi che le motiveranno saranno descritte
in una sintesi che partendo dalle due elaborazioni ne illustrerà una terza che
le comprenderà entrambe.
Il metodo del consenso non funziona se c’e’ una parte che vuole prevalere
sull’altra. Non funziona se ci sono zone identitarie forti che rendono questo
tipo di modalità di risoluzione dei conflitti inefficace. Non funziona se ci
sono veti, censure, ostracismi, ostruzionismi, ricatti (es: o così o niente, o
così o non ci stiamo). Non funziona se il metodo assembleare è frontale (con
alcune che si mettono in cattedra) invece che in un simbolico cerchio che rende
tutte eguali e con pari diritti.
I conflitti che emergono, fino a che non ci sono zone arroccate e dure che
si rifiutano di confrontarsi, in questo modo potrebbero essere gestiti in
maniera costruttiva.
La comunicazione di opinioni che determinano conflitto dovrebbe tenere conto
di questo metodo. Perché sappiamo che la redazione di un comunicato o di un
documento pubblico può sempre lasciare zone di rappresentazione scoperte.
In questo senso un comunicato che descrive l’esito della nostra assemblea
andrà a contenere tutte le opinioni espresse e un documento pubblico farà lo
stesso.
Vi sono due luoghi nei quali si può garantire partecipazione tenendo conto
del fatto che pur volendo garantire il massimo dell’inclusione resta intatto il
limite della non rappresentazione dei soggetti assenti o che non hanno preso la
parola in senso reale o virtuale.
L’assemblea pubblica – che può essere condivisa anche con chi non è
fisicamente presente sottoforma di chat meeting o altri mezzi di
comunicazione a distanza che assicurano una più ampia partecipazione –
è un luogo di aggregazione al termine della quale
solitamente si realizza un comunicato o un documento conclusivo che per
pigrizia e stanchezza viene delegato ad una o più persone. La
approvazione di
tali documenti in genere viene fatta alla fine delle assemblee, in situazioni caotiche, mentre il tempo per
gli interventi si accorcia, quando non c’e’ più tempo per intervenire senza
essersi prima iscritte a parlare.
Questi documenti dunque risultano infine approvati per stanchezza e
impossibilità reale di argomentare motivi di opposizione o di includere pareri
diversi.
Questa modalità di realizzare comunicazione non è inclusiva ma presenta
moltissimi limiti. Meglio sarebbe ad esempio lasciare che i documenti fossero
proposti all’inizio dell’assemblea, per dare modo a tutte di poter intervenire
nel merito o – se vengono proposti alla fine – di rimandarne l’approvazione ad
un momento virtuale.
Perciò diventa utile l’uso del secondo luogo di partecipazione: la mailing
list “di lavoro” e il blog con commenti a pubblicazione aperta. Una lista che
può diventare luogo di confronto effettivo e di elaborazione politica. Luogo di
espressione di pareri e di costruzione di condivisione secondo la pratica o il
metodo del consenso. Un blog ci mette in condizione di poter condurre un
dibattito aperto, pubblico e trasparente sulle stesse argomentazioni. Anche per
la lista, per facilitarne la lettura e consentire la partecipazione anche alle
non iscritte sarebbe opportuno che gli archivi fossero a lettura pubblica.
Quali saranno i rapporti da tenere con la stampa?
Superati tutti questi problemi di
metodo circa la comunicazione interna allora potremo parlare degli obiettivi
che vorremo raggiungere rispetto a quella rivolta all’esterno.
Quello che ci interessa è dare
visibilità alla nostra lotta. Secondo quanto emerso al tavolo sulla
comunicazione del 23/24 febbraio il modo preferito per comunicare all’esterno
quello che facciamo presuppone una analisi veritiera sul mondo della
informazione oggi.
In Italia abbiamo televisioni e
giornali in stretta dipendenza ad ambienti di partito o ad intere aree di
governo del centro destra o del centro sinistra. La rete femminista e lesbica
sin dall’inizio ha scelto una collocazione che agisce in contrasto ai
provvedimenti assunti o proposti in relazione ai temi che ci interessano: la
violenza maschile sulle donne, la questione del reddito, i diritti civili per
chiunque non si riconosca nel modello familista eteronormato imposto, la
laicità dello stato, l’antifascismo, l’antirazzismo, l’antisessismo.
Le posizioni assunte e comunicate
hanno sempre ribadito, dall’esterno per chi non intende avere un dialogo con le
istituzioni e con comunicazioni precise per chi non teme di rivolgere le
proprie posizioni direttamente a chi nelle istituzioni decide per noi cose che
non ci piacciono, che abbiamo obiettivi precisi, che non si piegano agli
interessi di nessuno, che non risparmiano critiche ai governi di centro
sinistra così come a quelli del centro destra, che dunque non siamo funzionali
a nessuno.
La stampa di partito o di governo
normalmente non pubblica nulla che non sia utile alla loro “gloria”. La stampa,
il nostro mondo dell’informazione, ci impone poi delle regole circa i tempi, le
lunghezze, rispettati i quali non c’e’ poi neppure la garanzia di una
pubblicazione. Il mondo dell’informazione ci impone meccanismi che non sono
diversi da quelli che determinano le decisioni che riguardano le nostre vite e
la gestione di molte cose nel nostro paese. Bisogna andare avanti per
conoscenze, per nepotismi, per aree egemoniche, per nicchie di potere. La
stampa è un mondo che subiamo. L’informazione non è più un diritto ma un
privilegio da vivere e da spartire per pochi e poche.
Del mondo della informazione
pubblica riusciamo a cambiare ben poco proprio perché è una zona
rappresentativa del potere che disegna e rappresenta la società a propria immagine
e somiglianza.
Nel loro disegno noi siamo una voce
stonata, fuori dal coro. Per tanto tempo il mondo dei media mainstream ha
determinato un monopolio assoluto nella diffusione di notizie e ha perciò
imparato a fare la voce grossa, a dettare regole sulle notizie da pubblicare
piuttosto che a ricercarle. Chi ha provato a mettersi in rapporto con quel
mondo alla fine non è riuscito a condizionarlo rendendolo più “aperto”. Anzi
spesso ha solo ottenuto di ricavarsi un’area di potere che gestisce esattamente
come tutt* gli/le altr*.
Inseguire i media per ottenere
visibilità è dunque veramente faticoso e diventa fallimentare assumere questa
tecnica come obiettivo.
La tecnologia ci offre oggi delle
possibilità non costose di realizzare informazione. Per tante di noi esiste un
motto che è quello di diventare “media” noi stesse. Mostrando quindi la
capacità di autodeterminarci e di generare comunicazione in maniera autonoma.
La stampa che vorrà confrontarsi
con noi potrà farlo a partire dai nostri luoghi di comunicazione alternativa e
non viceversa.
La stampa che vorrà sapere quello
che pensiamo potrà seguirci nei nostri luoghi pubblici. Potrà venire a
confabulare con noi nel blog Flat (in cui si può realizzare una
categoria
comunicati stampa). Potrà raggiungerci in mille modi senza esigere che
vi sia
una o due persone telefonicamente raggiungibili che in breve e in tutta
fretta
risolvono il problema di due righe da aggiungere ad un pezzo per stare
sulla
notizia e di un virgolettato che fornisce un alibi a ben altre censure.
Può seguire i nostri incontri via streaming radio o video, qualora
fossimo in grado di realizzare questo genere di comunicazione.
Partiamo dal presupposto che siamo
noi che realizziamo le notizie e facciamo informazione. In una società dello
spettacolo dove non esisti se non ne parlano i giornali o se non sei in tivvu’
a noi va il compito di capovolgere tutto ciò. Noi esistiamo. La legittimazione
della stampa ufficiale non ci serve per esistere.
Per noi dunque, nessun gruppo
addetto alla redazione dei comunicati stampa, dei contatti con la stampa, della
organizzazione delle conferenze stampa. Nessuna area privilegiata di relazione
sulla comunicazione esterna da realizzare. Noi siamo tante, diverse, ciascuna
di noi fara’ e dirà quello che vuole. I comunicati stampa a firma collettiva
saranno elaborati insieme, in maniera condivisa e con il metodo del consenso.
Come dare visibilità alla nostra lotta, parlando linguaggi
accessibili ed essendo più efficaci nella comunicazione con l’esterno?
La lotta, anzi le lotte che
portiamo avanti sono rese visibili in modi differenti. Ci sono appunto gli
eventi pubblici, le iniziative, i presidi, le manifestazioni, gli striscioni, i
cartelli, i comunicati, i volantini, le performance, i giochi in piazza, i riot
collettivi che tendono a lasciare un messaggio forte: come, ad esempio, le
pupotte della campagna bolognese “adotta un consultorio” che sono diventate
utili ad esprimere attraverso le nuvolette da fumetto qualunque altro
messaggio.
Quali sono dunque i metodi più
efficaci? Quali ancora possono essere i metodi di comunicazione più
comprensibili?
In questo senso entriamo nel
terreno dei segni, dei linguaggi. Spesso nella comunicazione con l’esterno
tendiamo a descrivere ciò che vogliamo dire in maniera autoreferenziale.
Scriviamo e ci esprimiamo senza
pensare a chi ci legge ma solo a quello che ci sembra importante dire. E’
inevitabile perciò che finiamo per utilizzare un linguaggio che ci somiglia,
che è fatto di codici di comunicazione che noi condividiamo con le nostre
compagne di percorso e non con l’intero genere umano.
I volantini sono l’esempio più
lampante in questo senso. Sono spesso pieni di concetti incomprensibili per la
maggior parte delle persone. Si finisce dunque per parlare sempre e solo a se
stesse (esempio: utilizzare termini come eteronormato, familista,
catto-fascista etc etc, non è comprensibile ai più).
Potrebbero esservi quindi due
modelli diversi di comunicazione: quella rivolta alle persone che vanno solo
informate delle questioni che vogliamo comunicare e poi quella rivolta alle
persone che non sono affatto sensibilizzate, alle quali può non fregare nulla
di vivere in una società eteronormata, familista, catto-fascista a meno che non
si spieghi loro quali sono gli effetti di una scelta politica di questo genere.
Noi sappiamo che non basta
pronunciare la parola “donne” (così come “gay” o “lavoratore” etc etc) per trasformare
il nostro pubblico per incanto in una folla di adoratrici pronte a dare
consenso ad ogni azione politica che portiamo avanti.
Noi sappiamo anche che la maggior
parte della comunicazione “pubblica” di
altri soggetti politici è cambiata in direzione populista. Vale a dire che
vengono pronunciate parole comprensibili a partire da posizioni piene di
pregiudizi, che sollecitano l’intervento dell’uomo forte, che istigano alla
restaurazione di una forma di totalitarismo che a noi è tristemente noto come
fascismo.
Nella rappresentazione esterna per
così dire quasi funziona una riproposizione di modelli stereotipati, che usano
linguaggi stereotipati per dire cose non stereotipate.
Mettere in bocca ad una donna
stanca e affaticata con grembiule da casalinga una frase che dica che due palle
tutto questo interesse per la famiglia, diventa più efficace della ministra in
tailleur con pettinatura cotonata che dalla tivvù, con gambe accavallate,
sparge perle di saggezza e spiega che i diritti civili vanno garantiti a tutt*.
Chissà perché ma nel mondo della
comunicazione vince il modello della rappresentazione del reale, di quello in
cui le persone si identificano. Perciò le pupotte diventano un modo fantastico
e singolare di comunicare un messaggio.
Ci sono le volte poi in cui uno
stereotipo si combatte dando vita a quello stesso stereotipo in forma
caricaturale: così per esempio io vedo la campagna per il pride nazionale 2008
di bologna.
La nostra ricerca di differenti
linguaggi e metodi per ottenere visibilità dovrebbe poi differenziarsi da
quella articolata per riot machisti.
Andare all’assalto della zona rossa
– qualunque essa sia – porta in se’ un simbolico machista e scimmiotta schemi
di guerriglia con l’obiettivo di mimare la conquista di una nuova colonia.
Realizzare opposizione e dissenso favorendo la possibilità che sulla stampa di
partito e di governo tale opposizione e tale dissenso vengano ingiustamente
ridotte a semplice “atto di violenza” diventa controproducente, inutile sul
piano politico e anzi rafforza la opposizione.
Lo strumento per eccellenza di
annientamento del dissenso è quello di manipolare, gestire, sminuire,
annientare i corpi. Offrirli in pasto a chi ci vuole fuori dal dibattito
politico è come fargli un gran favore.
Si può ottenere lo stesso obiettivo
in un attack di bomboloni alla crema. Difficile da denigrare e diretto nella
contestazione.
Una proposta di elaborazione può
essere:
– Semplificazione
dei linguaggi;
– analisi
degli obiettivi (persone, soggetti) che vogliamo raggiungere con la
comunicazione;
– le
strategie di opposizione e di lotta a partire dalle esperienze già messe in
campo
Come può avvenire lo scambio di comunicazione attraverso i blog?
Nell’Abc della femminista tecnologica già racconto
come, dal mio punto di vista, un blog possa essere utile allo scambio di
comunicazione. Vi sarà utile dunque consultare questo Link.
—>>>Le chiacchiere tra donne della foto vengono da qui.
—>>>Da Femminismo a Sud