Roma – I videogiochi hanno subito sino a tempi recenti lo stigma di essere un prodotto fatto da maschi per altri maschi. Quantunque ormai sdoganata l’idea di una ragazza intenta a divertirsi con la Playstation, non altrettanto appartiene all’immaginario collettivo la figura di programmatrice o declinare al femminile un qualsivoglia impiego nell’industria videoludica nonostante l’impegno di organi quale il Women In Games International.
Punto Informatico ha già investigato di recente le ragioni di un disamore del gentilsesso per una carriera nel mondo IT, stavolta però è un sondaggio di una facoltà britannica a vagliare elementi di discriminazione verso le donne interessate ad un lavoro in questo campo. Abbiamo quindi interrogato Julie Prescott, ricercatrice all’Università di Liverpool e curatrice, nel più ampio progetto Breaking Barriers in the Workplace, della ricerca sugli ostacoli all’avanzamento professionale in rosa nel settore videogame.
Punto Informatico: Sei in possesso di qualche risultato preliminare da condividere coi nostri lettori? Esiste qualche concreta barriera nei confronti delle donne per un iter lavorativo nei videogiochi?
Julie Prescott: Secondo le statistiche del 2006 solo il 12% dei dipendenti dell’industria videoludica britannica sono donne e l’IGDA (International Game Developers Association, ndr) ha riscontrato dati simili negli USA e in Canada. Al momento sto cercando di reperire risultati su scala mondiale.